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In memoria di Marcantonio, di Michele Colucci

Il primo sentimento che provo per questa vita sprecata in modo tanto assurdo è rabbia, una grande risentimento per un amico che ha sfidato la morte ed inevitabilmente ha perso la sfida. Perché a quella maledetta signora non interessa se lo sfidante abbia un cervello di categoria superiore, da preservare meglio di tanti altri, lei passa il suo mantello nero su tutti quelli che osano sfidarla senza porsi problemi.

Marcantonio parlava spessissimo della morte e ci scherzava su, facendoci ridere con le sue leggendarie battute: adesso sappiamo che era un modo per esorcizzare la paura, ma non c’era alcun bisogno di conferme, perché non ho mai conosciuto nessuno attaccato alla vita più di lui. Lui amava vivere nel senso più pieno: era curioso e affamato di nuove scoperte (la fame contraddistinguerà tutta la sua esistenza e quella per il cibo lo porterà alla morte); cercava il contatto umano come l’aria e per gli amici, quelli veri, diventava persino generoso.

Le sue passioni non si contano: dalla storia, locale e non, alla bibliofilia, dalla filatelia alla numismatica, dalla fotografia alle arti grafiche alla musica, dal giornalismo alla politica, alla cucina, fino ai suoi amori, molti dei quali platonici.

Era totalmente preso dai suoi “inutili studi” - come lui stesso autoironicamente li chiamava – sul terraggio, giornate intere trascorse nell’archivio di Stato e sull’araldica: per risalire alle radici del suo cognome è stato capace di vincere la sua proverbiale pigrizia ed arrivare fino a Lapìo, in provincia di Avellino, per consultare i locali registri anagrafici e constatare, tristemente, che il loro antenato più lontano era soltanto un custode di cimitero ed i suoi successori tutti “cafoni”. Per vincere la delusione millantava parentele altolocate, una delle quali persino con un ex presidente della Corte di Cassazione, col quale però è assai probabile che oltre alla coincidenza del cognome ci fosse anche una effettiva, sia pur lontana, consanguineità.

Tutti i suoi obiettivi non perseguivano mai scopi di lucro: appena si poteva intravvedere la minima possibilità di mettere a frutto i risultati dei suoi studi, lui mollava immediatamente, terrorizzato dall’impegno che il progetto avrebbe richiesto. Ogni suo interesse era finalizzato al piacere: che fosse intellettuale o ludico o semplicemente godereccio.

Da persona piena di contraddizioni qual è sempre stata, da una parte solidarizzava col popolo sfruttato grazie alla sua fede comunista inossidabile (anche se un po’ annacquata negli ultimi tempi), dall’altro lato non solo stringeva amicizie con i signori e i padroni che avrebbe dovuto combattere, ma ne era letteralmente attratto e affascinato.

Il personaggio ideale cui si ispirava era Oblomov, protagonista dell’omonimo romanzo di Gončarov (non c’era ancora la fatwa contro gli autori russi) che era l’archetipo degli apatici. Il processo di identificazione con un ignavo che rifiutava qualsiasi impegno, preferendo poltrire sul divano a costo di rinunciare anche all’amore, era totale, al punto da fondare un giornale web col suo nome. In lui il rifiuto del lavoro era programmatico e ogni tentativo di invogliarlo o offrirgli un’opportunità di impiego era non solo inutile, ma veniva rifiutata con sdegno e in modo violento.

Anche nel giornale web trovava il modo di far lavorare gli altri; a lui bastava fregiarsi del titolo di direttore, grazie al patentino di giornalista ottenuto senza scrivere un solo articolo, ma limitandosi a firmare quelli che gli scrivevano i collaboratori delle associazioni di volontariato sottoposte al suo controllo, quando era presidente del fondo che erogava i finanziamenti bancari. Lascia in eredità un archivio sterminato di fotografie, la maggior parte delle quali mai sviluppate per ignavia, che bisognerà assolutamente salvaguardare e catalogare, con l’obiettivo di organizzare una mostra retrospettiva.

Amava definirsi intellettuale, con ciò intendendo che l’unico lavoro che per lui fosse ammissibile era quello cerebrale, ma di impegno fisico non si poteva nemmeno parlare in sua presenza.

Coerentemente si è fermato a 2 esami dalla laurea in scienze economiche e ironizzava pesantemente sui tanti laureati che riteneva inferiori a lui, sicuramente molto più ignoranti, patente quest’ultima che elargiva generosamente a desta e a manca.

La sua lingua sferzante non gli attirava molte simpatie, ma era più forte di lui, non riusciva a mediare ed odiava l’ipocrisia, ritenendosi, sul punto, il più coerente di tutti. A costo di litigare anche con i familiari più stretti.

Sul piano sentimentale era un romantico esasperato, quasi infantile. In passato è stato capace di tornare da Siena e rubare i fiori al cimitero per fare una sorpresa alla sua amata il giorno del suo compleanno. Si narra di appostamenti notturni sotto casa di un amore non corrisposto, ma senza farsi notare, non era tipo da stalking.

Sognatore, certo: per lui il mondo ideale era quello in cui non ci fosse bisogno di lavorare e potersi dedicare ai piaceri ed alle passioni. Ironico ma anche molto autoironico; anzi il primo obiettivo delle sue frecciate era lui stesso e solo dopo gli altri, nessuno escluso, anche gli amici e gli affetti più cari. Era il compagno ideale da invitare a tavola, primo perché non si tirava mai indietro, oltre a fare onore alla cucina, ma perché allietava lo spirito in ogni circostanza, riuscendo sempre a suscitare allegria.

La limitata mobilità negli ultimi anni lo aveva costretto a ridurre il suo raggio d’azione, e per questo aveva scelto una postazione che fosse al centro della vita cittadina: la Cremeria Letteraria, in piazza Duomo, l’ombelico della sua città. Ma non aveva perduto la sua capacità critica e sferzante, che continuava ad esercitare con rinnovata passione dal tavolino del suo nuovo “ufficio”, come lui stesso lo chiamava.

Ora che non ci sei più mi dici con chi trascorreremo i momenti conviviali, con chi potremo ancora provare la leggerezza che solo tu, nonostante il peso, sapevi riuscire a trovare nelle cose e nei fatti di tutti i giorni?

Michele Colucci

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