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Giuseppe Di Vittorio e Lucera, di Giuseppe Trincucci

LUCERA – “Ragazzo bracciante semianalfabeta, figlio di braccianti analfabeti, vivente in una società di analfabeti”, così di sé stesso diceva icasticamente Giuseppe Di Vittorio, ricordando i primi anni della sua vita, quando affinò la sua testimonianza nelle lotte contadine e operaie, che lo impegnarono poi per più di mezzo secolo. La sua prima scuola - ricordava sempre Di Vittorio - fu il carcere di Lucera.

Da piccolo quando a nove anni iniziò a lavorare i campi per sostenere la sua famiglia, privata della guida e del sostegno del padre morto prematuramente, e fu costretto ad abbandonare gli studi elementari. Eppure aveva voglia di studiare: ogni tanto sbirciava solo un grosso librone, che aveva preso per pochi soldi in un mercatino di Barletta, un Vocabolario della lingua italiana.

Ma Di Vittorio era evidentemente destinato ad altri traguardi. Negli anni successivi bruciò le tappe: la sua capacità, la sua tenacia, la sua passione civile non sfuggirono ai dirigenti politici del socialismo pugliese, ma soprattutto gli assicurarono la considerazione e la fiducia dei suoi compagni di lotta e delle masse lavoratrici. Fu nominato segretario della Camera del lavoro di Cerignola e capo riconosciuto delle leghe contadine: un punto di riferimento per le prime battaglie sindacali. Girò in lungo e in largo la Puglia per organizzare le lotte contadine e per riassettare in una organizzazione ordinata e determinata le masse proletarie.

Il 1911 fu un anno decisivo per la vita del giovane Di Vittorio. Fu delegato al congresso dei giovani sindacalisti di Firenze dove acquisì coscienza della necessità di collegamento e di confronto dialettico tra le masse lavoratrici di ogni parte d’Italia. Nell’autunno di quell’anno fu il promotore e l’organizzatore di uno sciopero ad oltranza dei contadini di Cerignola, che lottavano per affermare i loro diritti in tema di salari e di orario di lavoro. Le occhiute forze di polizia videro in lui un pericoloso sovversivo e un temibile capopopolo. La sera stessa Di Vittorio venne arrestato e tradotto nel carcere di Lucera, dove sarà detenuto per tre mesi.

Di questi suo incidente Di Vittorio conservò un ricordo indelebile. Il secondo giorno fu avvicinato dal cappellano del carcere, che fu accolto non senza diffidenza dal giovane rivoluzionario. Il sacerdote gli regalò tre libri con cui riempire i lunghi silenzi di una cella fredda ed angusta: i Promessi sposi di Manzoni, La città del sole di Tommaso Campanella, i Canti di Giacomo Leopardi.

Il giovane Di Vittorio non aveva dimestichezza con lo studio, negato a chi: “non aveva nemmeno i soldi per comprarsi le candele e che la sera sentiva gli occhi che si chiudevano dalla fatica e dal sonno e doveva lottare per tenerli bene aperti e continuare a leggere”. Considerò quindi quella forzata restrizione della libertà un’opportunità da non perdere e si gettò a capofitto nella lettura dei tre libri, che divennero un marchio di cultura faticosamente conquistata.

Confessò di continuare a leggere quei tre libri anche a distanza di anni. E con Leopardi affinò un particolare rapporto di predilezione: “tutti dicono che Leopardi è difficile, eppure io che non avevo finito le elementari l’ho capito subito… era qualcosa che mi dava l’illusione di non essere più tra le mura di un carcere e mi trasportava con l’immaginazione nei campi e nelle vigne della mia Cerignola. Riandavo alle mie notti, ai miei silenzi, ai miei ritorni dal lavoro sotto la luna e mi spiegavo anche l’incanto sotto il cielo di quella prima giornata di lavoro a raccogliere piselli. Le parole che usava Leopardi mi parevano semplici come quelle che usavano mia madre, mio padre. Forse perché per noi di campagna che eravamo sempre a tu per tu con la luna, la sensazione di infinito e di mistero si prova già da bambini. La città del sole è stata scritta da un meridionale e direi che non poteva essere che così. Io sono un patito della mia terra e della mia gente e l’utopia di Campanella è quella che sta dentro la testa di ognuno di noi che stavamo e stiamo ancora all’inferno. Quando lessi quel libro per la prima volta avevo diciannove anni. Era, pur in mezzo alle lotte che conducevamo e al lavoro ingrato che facevamo, l’età dei sogni, dell’utopia. Poiché non dovevamo sperare che gli uomini potessero creare condizioni più umane, organizzare una città del sole? Oggi non ho abbandonato non il sogno, la certezza che questa città del sole sarà edificata e con la testa e con le mani dei lavoratori e adeguando l’utopia di Campanella con quanto di nuovo ci hanno insegnato la lotta di classe e il marxismo”.

Ma anche la lettura del romanzo di Manzoni ebbe un effetto folgorante e la sua interpretazione assolutamente coerente alla sua visione del mondo per cui dice: “alla prima lettura nel carcere di Lucera, i protagonisti Renzo e Lucia [mi parvero] proprio quelli che ha voluto il Manzoni. E la persecuzione contro i due popolani che mi ha preso, sono le loro disgrazie e peripezie, la loro insistenza per avere giustizia che mi facevano assorbire parola per parola, pagina per pagina come raccontasse la mia vita, quella di mio padre e di mia madre, quella delle migliaia di uomini che conoscevo. Per me quella storia era cronaca viva, presente; le rivolte di Milano, le grida, le epidemie, i servi dei potenti, gli azzeccagarbugli in toga, i don Rodrigo erano come gli agrari contro i quali io mi battevo. […] Quello che so di sicuro è che uscii dal carcere di Lucera molto più ricco dentro. Mi sembrava anche di essere più alto di statura. Avevo conosciuto Manzoni, Campanella, Leopardi e in carcere, dove è obbligatorio il silenzio, mi pareva di aver parlato con loro e che con loro avrei potuto accompagnarmi nella vita”.

Di Vittorio venne scarcerato una prima volta e ritornò subito nella mischia della battaglia. Seguirono eventi fondamentali nella vita politica italiana, che lo coinvolsero con forza: nel 1912 Di Vittorio diventò dirigente regionale della Federazione sindacale giovanile e segretario della Camera del lavoro di Minervino Murge; nel 1913 votò per la prima volta per la Camera dei Deputati dopo l’approvazione della legge sul suffragio universale, e con lui votò per la prima volta tutta assieme “la cafoneria; visse il dramma della prima guerra mondiale cui Di Vittorio partecipò con convinzione e coerenza; ancora continuò le lotte per il lavoro e il salario del primo dopoguerra e per l’affermazione delle forze socialiste ormai chiamate al governo di moltissimi comuni anche della sua provincia; affrontò la reazione del padronato e della destra estrema che arruolò furiosi mazzieri fascisti.

Nel 1921 il potere fascista diventa quasi universalmente preponderante e afferma con la connivenza e la tolleranza delle forze di polizia arrogante e prevaricatore. Nell’aprile di quell’anno il sindaco socialista di Cerignola, Salminci, e due assessori furono arrestati. Ma Di Vittorio agitatore delle masse, capopopolo carismatico e deciso, diventa un pericolo da eliminare e zittire. Durante uno scontro Di Vittorio nel corso di una manifestazione di protesta il 15 aprile assieme a circa cento dimostranti venne fermato e poi arrestato e tradotto la sera stessa nel carcere di Lucera, in quello stesso luogo di restrizione dove aveva patito prigione dieci anni prima.

Nelle elezioni politiche del 15 maggio fu candidato come indipendente per il partito socialista. I suoi mentori furono Peppino Di Vagno, poi barbaramente assassinato il 25 settembre 1921 dopo una manifestazione politica a Mola di Bari e Bruno Buozzi punto di riferimento del sindacalismo italiano. Venne eletto deputato al Parlamento con ampio consenso e con i voti della sua città e di quelli delle province di Foggia e di Bari.

Dei cinque socialisti eletti (con lui Arturo Vella, Giuseppe Di Vagno, Domenico Maiolo e Michele Maitilasso) fu il terzo degli eletti con 73.192 voti.

La sua elezione seppe dell’eccezionale: ad annunciargli la vittoria fu lo stesso direttore del carcere tra il commosso e il compiaciuto, che lo avverte che Giuseppe Caradonna, gerarca fascista di Cerignola, non gradisce il suo ritorno a Cerignola, per possibili scontri e disordini.

A Lucera, che era governata da un’amministrazione socialista, retta da Michele Ferrone, con vicesindaco l’avvocato Roberto Damiani, la notizia dell’avvenuta elezione fu accolta invece con grande entusiasmo. A Lucera risiedevano Leone Mucci e Michele Maitilasso, uomini di punta del socialismo dauno.

Nel primo pomeriggio del 27 maggio, dopo la proclamazione degli eletti, Di Vittorio lasciò il carcere: i compagni lucerini lo aspettavano all’uscita, lo portarono in trionfo da piazza Tribunali, sfilarono per via san Francesco e piazza del Carmine, arrivarono a piazza Marotta, un piccolo slargo dove abitualmente si tenevano comizi. Qui su un improvvisato banchetto, introdotto dal vicesindaco l’avvocato Damiani, Di Vittorio tenne il suo primo comizio.

Dell’avvenimento «Il Foglietto», ormai vicino alle posizioni del Blocco Nazionale del quale fanno parte tra gli altri Antonio Salandra, Filippo Ungaro, Giuseppe Caradonna, dà una notizia stringatissima dell’avvenimento sul numero del 29 maggio: “A seguito dell’avvenuta proclamazione l’on. Giuseppe Di Vittorio nel pomeriggio di venerdì venne escarcerato, e la sera le organizzazioni proletarie di Lucera gli fecero una dimostrazione di giubilo. In piazza Marotta parlarono l’avvocato Damiani e l’on. Di Vittorio, il quale ospite dell’on. Mucci, è ripartito ieri per Foggia e quindi per Bari. Non andrà a Cerignola”.

Molto diverso è il tono di «Spartaco», il giornale della Federazione Socialista di Capitanata che già il 27 maggio scrive con il titolo Giuseppe Di Vittorio escarcerato: “Il nostro ottimo compagno detenuto per viltà di avversari senza scrupoli, di poliziotti venduti e di magistrati compiacenti al regime… borghese-fascista, è stato messo in libertà per l’avvenuta proclamazione ufficiale a deputato al parlamento. Tutto il popolo di Puglia che ha lottato e vinto per questo contadino dalla parola affascinante, ne è orgoglioso e ne giubila. Viva Di Vittorio. Viva il socialismo”. Sullo stesso numero viene annunciato che il sindaco Michele Ferrone aveva chiesto un periodo di congedo di due mesi dalle funzioni di sindaco.

Il 3 giugno «Spartaco» ritornò sull’argomento e con il titolo Il proletariato di Capitanata per l’on. Giuseppe Di Vittorio pubblicò questo intervento: “La scarcerazione per l’avvenuta proclamazione ufficiale a deputato di Giuseppe Di Vittorio. Detenuto innocentemente nel Carcere di Lucera per i noti fatti di Cerignola, fu appresa dal proletariato di Puglia e della Capitanata in ispecie, con il più vivo entusiasmo. Il proletariato di Lucera così generoso, compatto e disciplinato, la sera della scarcerazione improvvisò una dimostrazione imponentissima. Tutto il popolo lavoratore prese parte a questa dimostrazione di giubilo. Le donne buone e lavoratrici del nostro popolo al passaggio del memorabile corteo gettavano fiori ed applaudivano. Tutte le bandiere delle leghe, sempre più affratellate nell’aspra lotta, sventolavano ancora una volta in Lucera che pareva destinata per eterno a vivere sotto il giogo di Commendatori e dei Cavalieri, tra un tripudio di gioia e di applausi del popolo festante. Gli avversari dovettero ancora una volta constatare la imponenza delle forse di cui dispone il partito socialista. In piazza Marotta gremitissima di popolo presentato dal compagno Roberto Damiani, prosindaco, il compagno Di Vittorio, pronunziò spesso interrotto da applausi, un formidabile discorso durato circa un’ora. Anche gli avversari presenti, rimaneva spesso intontiti per l’oratoria appassionata, piena di fede di questo contadino che per volontà del popolo va al Parlamento. La fine del magnifico discorso fu applauditissima”.

Nel suo discorso di esordio alla Camera di fronte a un uditorio eterogeneo e in gran parte ostile disse di sé: “Signor Ministro, io sono un contadino che lavora con la zappa e con la vanga, e nessuno credo può dire meglio di me quale dei due strumenti richieda forza maggiore”.

Negli anni successivi la storia personale di Di Vittorio si intersecò con quella più generale della storia italiana con la presa del potere del fascismo, con le leggi fascistissime, i delitti di Di Vagno e di Matteotti, la politica coloniale, la guerra di Spagna, il confino e i processi, l’esilio in Russia e in Francia. Di Vittorio visse attivamente tutto quello che l’antifascismo militante richiedeva.

Nel 1940 viveva con la sua famiglia, semiclandestino in Francia, ormai governata dai collaborazionisti di Vichy. Il 9 aprile 1940 fu arrestata la figlia Baldina, lui fuggendo di casa in casa riuscì spesso ad evitare l’arresto, che fu poi inevitabile il 10 febbraio del 1941. Dopo essere carcerato in Francia il 20 giugno fu estradato in Italia. Era richiesto dai fascisti per una vecchia condanna del 1927 per la sua attività antifascista svolta all’estero. Il viaggio di ritorno fu lungo, passò di carcere in carcere fino alla consegna alla polizia italiana in una zona di confine e infine fu trasferito a Vipiteno, a due passi da Merano e dal confine austriaco, nello stesso carcere dove era stato recluso Bruno Buozzi. Qualche tempo dopo prese la via del ritorno nella sua terra di origine dalla quale mancava da quindici anni. Fu ristretto nuovamente nel carcere di Lucera, che lo aveva ospitato da giovanissimo attivista e da giovane sindacalista. Ma non si sentì solo; le guardie lo aiutarono, gli fornirono tabacco per le sigarette e qualche genere di conforto, ma come loro molti ignoti benefattori volle rendere meno penosa e dura la detenzione a Lucera in quella torrida estate del 1941.

Si rese conto che tutto era cambiato e che la sua figura era ormai ammirata e compresa. Nel carcere di Lucera c’era una sezione minorile di ragazzi giovanissimi incappati nelle maglie della giustizia. Li incontrava nell’ora d’aria e si rese conto presto che in quella situazione erano caduti a causa di un profondo malessere sociale e da una situazione di bisogno. Quei ragazzi ebbero modo di fargli avere un pizzino sul quale era scritto: “Noi siamo in carcere non per politica ma perché abbiamo rubato. Ci hanno detto che se vi lasciavano fare, i nostri genitori avrebbero guadagnato di più e non avremmo rubato per fame”.

Questo biglietto fu per lui una folgorazione tanto da segnare ulteriormente le sue scelte politiche e sociali. Lo ricordò in uno dei suoi ultimi comizi a Milano nel 1956: “Quel biglietto era il vero saluto e riconoscimento della mia terra. I ragazzi costretti al furto dalla miseria avevano preso coscienza non soltanto del diritto al pane, ma da chi e perché gli era negato. Ebbi la sensazione in quel preciso momento che il fascismo aveva perduto per sempre la sua battaglia interna e la sua guerra rovinosa. Sono certo che quei ragazzi si sono fatti uomini lottando contro il fascismo e costruendo la loro libertà giorno per giorno come il loro diritto al lavoro e al pane”.

Intanto fu sottoposto a processo e condannato a cinque anni di confino. Il 24 settembre del 1941 passando per Gaeta fu tradotto a Ventotene, da cui andrà via libero il 22 agosto del 1943.

Il vecchio carcere lucerino aveva segnato profondamente la vita di Di Vittorio: lo aveva fatto diventare, per le diverse occasioni che lo videro ristretto, il maturo combattente, il politico di razza e l’uomo della convinta testimonianza civile.

Giuseppe Trincucci

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