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Luoghi
di Capitanata
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La
lenta agonia dell'Abbazia di Sant'Agata
Mucchi
di macerie e crolli e violenze e scavi clandestini alla ricerca
di un impossibile tesoro sepolto: non trovano pace nemmeno nella
conclusiva agonia i resti che furono della grandiosa abbazia
di Sant'Agata nel territorio di Serracapriola, dove, fino agli
anni settanta del secolo appena tramontato, si celebrava ancora
la santa messa a beneficio dei contadini abitanti nel "casale".
Poche le notizie storiche che si accompagnano a questa imponente
opera. La sua mole strutturale è ancora visibile su un
rilievo formato dai depositi fluviali degli antichi letti del
Fortore. Con ogni probabilità doveva essere, in origine,
una semplice grancia dipendente del Monastero di Santa Maria
di Tremiti. È certo, tuttavia, che nel sedicesimo secolo,
raggiunto il suo massimo grado di splendore, prima che iniziasse
la fase di declino assieme all'abbazia madre di Santa Maria
di Tremiti, fungesse da punto di raccolta in terraferma delle
derrate agricole del potente monastero isolano.
Nel 1600, governata dai canonici regolari di Sant'Agostino a
nome dell'abbazia di Tremiti, il cronista sanseverese Antonio
Lucchino così la descrive: «Magnifica non solo
per eccellenza di architettura e fabrica, ma per sontuosi e
comodi claustri ed abitazioni; ricca di fertili territori et
utili boschi, dove si mantengono numerosi greggi e specialmente
de bufali. Ha una vigna e un bellissimo giardino attaccati
al luogo, con una abbondante fonte di acqua dolcissima da cui
viene irrigato e fecondato il giardino... ricco di alberi di
limoni e d'aranci». La impreziosiva, tra l'altro, una
«piccolissima pescheria murata dove si vedono varie sorta
di pesci», e famoso era un liquore di «succo di
Regolizie» che gli abili monaci preparavano «per
prelati e signori grandi, e con molta carità anche per
gli amici».
L'edificio, munito di possenti muri di cinta, comprendeva due
sezioni: la parte abbaziale con chiesa, teorie di celle e portico
colonnato che si sviluppava lungo il chiostro; e la parte indicata
come "casale", destinata agli alloggi dei coloni ed
ai magazzini per le merci che si aprivano su un ampio cortile.
Parte delle strutture interne, nella zona dei dormitori, crollò
durante il disastroso terremoto del 1627, quando l'abbazia contava
quasi cinquanta abitanti. Ma il danno venne riparato, se al
1750 risale la costruzione della chiesa rurale voluta dal vescovo
di Larino, in quanto nel monastero abitavano «meglio che
cento individui».
Dopo le leggi sull'eversione del feudalesimo, Sant'Agata venne
acquistata da alcuni mercanti napoletani che la cedettero, nel
1811, insieme col latifondo di pertinenza, al marchese de Luca
di Foggia. Gradatamente smembrata la proprietà terriera,
per successive vendite frazionate a privati nuovi possessori,
l'abbazia continuò tuttavia, quasi per inerzia, a farsi
centro di richiamo di fede per le numerose famiglie di contadini
che risiedevano nel "casale". Ed anche da Serracapriola
i fedeli vi si recavano talora a piedi o con lo sciarabbà,
come è nel ricordo dei piu' anziani del paese. Ma il
progressivo abbandono delle campagne che tenne dietro al fenomeno
del neo-urbanesimo degli anni '50, e il disinteresse dei proprietari
per un'emergenza monumentale dalla quale non si è saputo
trarre prospettive di redditi economici, ne decretarono la inesorabile
fine.
Ormai completamente diruta, con le tombe profanate ed ogni elemento
di un certo valore artistico trafugato, lo scheletro dell'abbazia
pare confondersi con l'arida natura che la circonda. E solo
dal ruscello che ancora scorre ai suoi piedi e che dà
vita a sporadici cespugli di liquirizia, sembra muoversi l'ultimo
barlume di vita legato ad una storia plurisecolare. Da Sant'Agata
infatti proviene il prezioso reliquiario ottagonale (ora custodito
presso il Museo Diocesano di San Severo) che il primo vescovo
di Dragonara, Eimerado, utilizzò nel 1045 a Tremiti,
quando consacrò l'altare maggiore della chiesa di Santa
Maria a Mare annessa alla famosa abbazia benedettina.
Francesco
Ferrante
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